Il colloquio e la narrazione nel counseling professionale
Nel memorandum di Lisbona del 2000, il counseling è indicato come intervento finalizzato alla maturazione di processi di riorganizzazione del sé professionale, finalizzati a costruire lo sviluppo e l’evoluzione delle storie personali, cercando una logica di continuità e di coerenza. E' un'attività in grado di innescare un processo di cambiamento nell’esperienza formativa e lavorativa del soggetto, a partire da un compito di orientamento che la persona deve affrontare (difficoltà a realizzare nuovi progetti volti a cambiare lavoro, ruolo, professione, a scegliere un percorso scolastico, ad affrontare sfide professionali o formative, eventualmente legate a sentimenti di disagio od inadeguatezza personale...). Non si tratta, perciò, solo di accompagnare il soggetto all’interno di un percorso che porti alla risoluzione di uno specifico problema orientativo, ma anche di capire come questo problema si relazioni alla sua identità.
Il metodo utilizzato è quello dell’auto-ricostruzione, della narrazione personale della propria esperienza, nel quale il professionista funge da "specchio". Il colloquio è gestito attraverso tecniche di riformulazione che consentono al cliente di spiegare il proprio punto di vista, permettono al consulente di riprendere gli elementi del discorso per verificarli e ordinarli in modalità più organiche e coerenti. L’obiettivo finale è presentare al cliente un punto di vista diverso da quello abituale, valorizzando elementi precedentemente non considerati.
Durante gli incontri è fondamentale fare attenzione ad alcune indicazioni.
Il colloquio non è un terzo grado (con eventuale utilizzo di lampada sul viso) e il consulente non è un agente dell'FBI. Il professionista deve evitare di porre domande strette, che presuppongano risposte secche, sintetiche e favorire domande aperte, per aiutare l’espressione spontanea, naturale, alla base della narrazione personale della propria storia formativa e lavorativa.
Il consulente non è un giudice (con parrucca), né un prete. Esprimere opinioni personali o giudizi morali su quanto detto dal proprio interlocutore blocca il processo di narrazione, il cliente si sente giudicato e smette di essere sincero fino in fondo, rendendo impossibile un colloquio efficace. Il professionista deve tenere per sé i propri valori di riferimento.
Il colloquio non è una partita da vincere. Qualora il professionista si accorga che è difficile per l’interlocutore accogliere la sua posizione, il suo punto di vista personale, deve essere in grado di sapersi decentrare rispetto alle proprie posizioni di partenza.
Il colloquio non è una attività di marketing. Comunicare informazioni ad effetto non aiuta la narrazione. Non si deve “colpire” l’interlocutore per portarlo sulle proprie convinzioni o si rischia la sua chiusura. La fiducia è caratteristica imprescindibile per una buona relazione consulenziale.
Il colloquio non è una intervista per il periodico “Chi!”. Mostrare curiosità verso gli aspetti privati, al di fuori dell’ambito del problema che si vuole affrontare, può comportare la chiusura del cliente. Inoltre, può sembrare scontato, ma è bene ricordare che, alla base del patto di fiducia fra cliente e consulente, vi è la riservatezza.
Il consulente non è un amico. Farsi carico emotivamente del problema che il cliente porta nella consulenza è un errore perché non è possibile farsi carico di tutti i problemi di tutti i clienti (rischiando di penalizzarne alcuni a vantaggio di altri), e perché è fondamentale trovare un equilibrio tra una forte empatia relazionale e un sano distacco professionale. Essere percepiti come professionisti aiuta la buona riuscita del processo di consulenza.
Il cliente non è una fonte di reddito, o una categoria, è una persona: è complesso. Riconoscere il valore dell’altro come persona può non essere sempre così banale e automatico per tutti, in tutte le condizioni.
La consulenza non è una confezione di caffè solubile, non esistono ricette preconfezionate pronte all’uso. E’ fondamentale ascoltare, rispettando i tempi del cliente. L’ascolto è attivo, è interazione con l’interlocutore, è saper aspettare, saper gestire i silenzi, senza cercare di riempirli, per lasciare spazio all’altra persona, affinché possa prendere la parola quando lo ritiene più opportuno. Il cliente deve essere aiutato a trovare le sue risposte, la sua strada, la sua scala di priorità, la sua scelta; il consulente indica punti di vista, non soluzioni.
A voi la parola.
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